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“Ho paura di due sole cose io, di Dio e della morte. Il resto sono solo cazzate. Erik la prossima volta passala a me”.

 

Benvenuti nel folle mondo di Ron Ron Artest. Anno di grazia 1999. Il figlio del Queensbrisdge più duro e puro è al suo anno da junior alla (indovinate un po’..) St. Johns’s University, è pronto a dare l’assalto alle final four Ncaa. Gli avversari sono quelli di Uconn. Ron è in missione difensiva su Rip Hamilton, ma dall’altra parte è lui la superstar. Più di Bootsy Thornton (yes, quello di Siena), di Reggie Jesse, Lavor Postell (New York e Pesaro), di Tyrone Grant (Milano) e di Erik Barkley (adesso Unicaja Malaga, e già incontrato nella puntata precedente sul Queens). I Red Storm hanno il tiro per vincere la partita o andare ai supplementari. Ma Barkley commette un errore mortale. Il play dei “The Destiny Boys”, non la passa a Ron, ma fa tutto da solo. St.John’s perde, addio Final Four. Uconn si avvia a vincerle, Rip Hamilton non lo sa ancora, ma s’incammina verso il titolo di Mvp delle Finals, mandando alle ortiche i sogni di Duke e di Elton Brand, uno che come vedremo tra un po’, con Ron Ron ci aveva già avuto a che fare.

Si vocifera che in spogliatoio Thornton e Postell abbiano protetto Barkley dalla ferocia di Ron. L’ha scampata bella. Ma la verità ha sempre due facce. Ferocia da strada e rispetto per la strada. Artest ha imparato a difendere alla “gabbia” (The Cage) e al Rucker, marcando proprio Erick Barkley. E così il giorno della consegna per l’Mvp difensivo del torneo Ncaa, la dedica va a lui: “  i piedi in difesa ho imparato a muoverli giocando con Barkley..e Fuck You Barkley. Ho paura di due sole cose io, di Dio e della morte. Il resto sono solo cazzate. Erik la prossima volta passala a me”. Mentalità da Queensbridge. Di uno nato il 13 novembre del 1979. Il padre, un ex pugile con un passato nei Marines, divorziò dalla madre quando Ron aveva solo 6 anni, creando non pochi problemi al giovane che, fin dalla tenera età, mostrò infatti una spiccata propensione alted abilità nelle risse, scolastiche e non. Furono, però, proprio questi attacchi di collera improvvisa che lo avvicinarono alla pallacanestro: a solo 8 anni, infatti, l'ennesimo assistente sociale che conobbe Ron, convinse i genitori ad iscriverlo ad una squadra di basket, in modo che imparasse a socializzare con i coetanei: fu amore a prima vista. Anzi, fu mania a prima vista. Da allora, l'energia un tempo sfogata nelle risse scolastiche venne trasferita nel nuovo passatempo. In breve divenne presenza fissa sui campetti della Grande Mela. Sul cemento del blacktop nasce la leggenda di Ron Ron. Al liceo si iscrisse alla Salle Academy High School. Quattro anni da pazzi. Nella stagione da senior venne eletto giocatore dell'anno dello stato e della Città di New York. Un anno chiuso con un record da 69-1. Erick Barkley, Reggie Jess e Elton Brand (in una partita a Las Vegas, per l'eccitazione Ron scazzottò Brand sino quasi a stenderlo), a fargli da cast di supporto. In quello stesso anno venne convocato per il McDonalds All-American Game. Ma le sfide che incantavano Ron non erano quelle ufficiali del Torneo Statale delle High School. Le vere sfide, per lui, erano quelle dei tornei estivi nel Bronx, quando si trovava di fronte a prospetti NBA del calibro di Lamar Odom, e a semidei della strada come RBK, Homicide o Skywalker, che sfidava al Rucker quando in estate era assoldato nella Terror Squad, la squadra con la quale si presentava al torneo il rapper Fat Joe. Poteva andare a Michigan State, a North Carolina, ad Arizona o Kentucy, a Duke (troppo bianchi e figuettini i ragazzi di coach K), ma un vero soldato (“The True Warrior”) deve andare a St.Johns con gli amici di sempre, Barkley e James. Il resto lo conosciamo già.

 

“Li odio i fottuti Knicks, soprattutto questa versione”.

 Andiamo alla sera del draft. I Knicks perdenti in finale 4-1 contro gli Spurs nella stagione del lockout, o dell’asterisco come la chiama Phil Jackson, sono pronti a dare l’assalto al titolo. La folle corsa da ottava testa di serie che raggiunge per la prima volta nella storia le Finals, fa credere a Jeff Van Gundy e al front office, che il back court formato da Allan Houston e Latrell “lo strangolatore di Milwaukee” Sprewell sia eterno. Meglio svecchiare la front line composta dai decadenti Ewing e Johnson, e dal talentuoso ma incostante Marcus Camby. New York sceglie alla15a. La prima chiamata assoluta è Elton Brand per i Bulls. Ron è pronosticato nelle prime sette, ma la sua reputazione scende quando decide di saltare la seduta del “Rookie meeting” (appuntamento orientativo pressoché obbligatorio per le future matricole), preferendo la compagnia femminile ai doveri da professionista. Un draft ricco: Steve Francis, Baron Davis, Lamar Odom, Jonathan Bender, Wally Szczerbiak, Richard Hamilton, Andre Miller, Shawn Marion, Jason Terry, Trajan Langdon, Aleksandar Radojević (piano con le risate là in fondo..), Corey Maggete, William Avery. Queste le prime quattordici. Scelgono i Knicks. E’ fatta per Artest. Giusto?.Ahahah. No. I New York alla 15a chiamano (quasi non riesco a scriverlo) Frederic Weis. Si, quel Weis. Il centrone francese, che nell’estate successiva passò alla storia, quando alle Olimpiadi di Sidney, Vince Carter decise che sarebbe stata una figata saltare a piè pari un 2.16 e schiacciargli in testa. Inizia in quel preciso istante il difficile rapporto tra i Knicks e il draft. Roba che va avanti da un decennio, ma d’altronde il nostro li odia i fottuti Knicks. E sia per Chicago. Ai Bulls ci resta tre anni. L’ultimo a 15.6 di media e la fama (giustificata)) di miglior difensore della Lega. A metà stagione si passa ad altro indirizzo. Indianapolis. Fino al 2006. Il miglior anno è il 2006 a 19.4. Animale da playoff, difensore supremo, in una squadra di cattivi ragazzi. Jamal Tinsley, Steph Jackson, Jermaine O’Neal. Reietti.
 

“Tonight is da night”. Fantastico pezzo di Redman, quello da strada, meno funk e molto Method Man. La sera è quella del 19 novembre 2004. Palace of Auburn Hill, Detroit, Michigan. Diretta nazionale. Nella città degli original Bad Boys, dei Pistons campioni Nba, di quel Rip Hamilton che lo fa ammattire dietro ai “curl”. Ron a risultato acquisito commette un "fallettino" (a 45'' dalla sirena) ai danni di Big Ben Wallace (miglior rimbalzista e difensore delle lega, figlio dell’Alabama, un’infanzia in miseria, insomma uno che non si gira dall’altra parte), che reagisce.  Qaltuasi rissa, poi sedata. Ma l’anima del Queens prende il sopravvento in Ron Ron. Artest si sdraia sul tavolo utilizzato da giornalisti e cronometristi e dopo qualche secondo viene colpito da un bicchiere di plastica (pieno di birra) scagliato dal pubblico. E’la fine. Artest, infatti, perde il controllo e corre in tribuna facendosi giustizia da sé con chiunque gli capiti a tiro. Stephen Jackson (uno beccato a sparare fuori da uno strip club alle 4 di mattina) lo segue.  Sul parquet, intanto, cominciano ad arrivare alcuni tifosi inferociti. Artest ne stende uno con un destro, lo stesso tifoso si rialza e viene rimesso al tappeto da Jermaine O'Neal. Rissa, putiferio. Squalifiche. A iosa. Stagione finita. 73 partite di sospensione. Fine dei bad boys in versione Pacers. Artest ceduto a Sacramento, in un viaggio che lo porterà a Houston (dove appena arrivò disse: “questa è la mia squadra”, peccato che ci fossero anche T-Mac e Yao con qualche anno in più di militanza) e da questa estate ai Lakers dell’amico/nemico Kobe, preso letteralmente per il collo nella semifinale playoff.

Queens all’ennesima potenza, come quando decise di rovinare in un allenamento estivo nel 2001 il ritorno di Michael Jordan, con un fallaccio che procurò al migliore di sempre la rottura di tre costole. Peccato di lesa maestà. Non per chi è cresciuto con i genitori nel Queensbridge, in un appartamento di due stanze da dividere con cinque fratelli e due cugini, con un padre, Ron sr., un ex marinaio, che si era indebitato per tenere incollata quella famiglia, e al quale un giorno i nervi cedettero e picchiò la moglie Sarah. Ron jr. vide tutto, però inventò una storia da raccontare alla polizia. Papà Ron lo fulminò: «Non mentire mai». E si consegnò agli agenti. Storie da Queens. E in ogni storia da Queens che si rispetti deve entrare anche il Rap. E allora vai con il disco autoprodotto: My World (2006).

Senso di appartenenza e rispetto. Per Ron sono tutto. Qualcosa da portarsi addosso. O meglio sulla testa. Dietro, sulla nuca, un pazzesco disegno con il logo Lakers. Ai lati, a destra la scritta “champion” in caratteri cinesi e a sinistra la scritta “Chatty”.

Chatty” era Mike Chatfiled, ucciso a colpi di pistola a New York qualche giorno prima dell’opening night dei Lakers nel derby con i Clippers, il 27 ottobre. Tra Ron e Chatty c’era quel rapporto che c’è con il tuo migliore amico che è talentuoso ma meno fortunato. Tra chi c’è la fa e chi no resta in the hood .Ron e Chatty e il playground. Poi le loro strade si sono separate. Ma il Queens unisce. Per tutti un signor nessuno. Per Ron, un campione, un amico (il migliore), un fratello.

“Represent” nel gergo Hip Hop. Rappresentare sé stessi, la propria storia, il proprio quartiere. Come ha fatto nello splendido documentario realizzato con la K1X, , un brand di vestiario street basket con cui a suo tempo firmò un contratto, sui luoghi del Queensbridge (il documentario è disponibile su Youtube). Le facce e il profumo del Queens. La testimonianza di Kevin Jackson, il primo coach di Ron.

Welcome to Queensbridge. Colonna sonora da far impallidire “Soul in the Hole”. Si vede “The Cage”, con il flow di “New York” di Rakim. Ti sveglia “Sound of da police” di Krs-One, ti fa saltare “Ruff Ryders” di DMX. Queensbridge non fa rima con Hollywood. Ma Ron Ron adesso è nella Città degli Angeli. Siamo sotto Natale. Tempo di regali. Phil Jackson, coach Zen, regala a tutti i suoi giocatori un libro. Chissà quale avrà scelto per uno che ha paura solo di Dio e della morte.