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Claudio Pea
Come inizio niente male: sette punti il Gallo, tre il Mago. Scusatemi, ma mi scappa troppo da ridere.

E’ solo preseason, d’accordo, si giustifica il giovanotto dell’ottantotto che ha fatto la cicala per tutta l’estate saltando di festa in festa, l’ultima delle quali domenica al Forum d’Assago, e di sponsor in sponsor, non ultimi i suoi viziosi amici della Banda Osiris. Uno su otto nel tiro da tre punti contro i Minnesota Timberwolves che non sono i Miami Heat e neanche i Los Angeles Leakers. Però ha difeso bene su Michael Beasley, che non è comunque LeBron James o Chris Bosh, s’è affrettato a discolparlo l’inviato a Parigi della Gazzetta che dorme col santino di Mike D’Antoni sul comodino. Io dico che se un Datome qualsiasi avesse baruffato in questo modo (indecente) con il canestro, neanche Matteo Boniciolli, proprio perché lo considera il miglior cecchino (incompreso) d’Italia, avrebbe osato spendere una buona parola in favore del suo soldatino sardo. Ma al Gallo dalle uova d’oro si perdona tutto: anche una frittata scipita e bruciacchiata, anche un uno contro uno con gli occhiali da sole, anche quattro mesi e mezzo di vacanze ai monti e al mare. E’ vero: sono un po’ duro con il rampollo di Vittorio Gallinari, ma una ragione c’è ed è abbinata ad una domanda: al basket azzurro sinora il fricchettone lombardo cosa ha dato? Solo molto fumo e niente arrosto. O mi sbaglio? Non penso. In più dobbiamo tutti avere rispetto per Andrea Bargnani che avrà anche toppato la prima (con un vergognoso 1 su 9 da tre), ma almeno i Raptors hanno asfaltato Phoenix (129-78) e lui, al contrario della cicala milanese, durante l’estate ha avuto il coraggio di metterci sempre la faccia lavorando sodo con Simone Pianigiani e raccogliendo molti cicchi di grano per l’inverno americano. Come una formica brava e volonterosa. O non devo forse più credere neanche alle favole di Esopo?

Come preannunciato, non ho visto Armani-Knicks in televisione. E chi se ne frega? Obiezione accolta, però lo giuro, e invitandovi a non pensar male, avevo altro e molto di meglio da fare. Per esempio tifare per i fratelli Molinari nella Ryder Cup che è stata un’emozione vera e non un’autentica pagliacciata come la vestizione di Mike D’Antoni in rosso e nero. In più, se un cicinin mi conoscete, non ho mai fatto mistero di non sbavare per le cose della Nba o per gli strilli nevrotici di Cicciobello e men che meno per le storie buffe che ci racconta il suo compare di merende. Come quella dello zio di Larry Bird, salopette e camicia a quadri, che tutte le sere, al tramonto del sole e dopo un giorno di lavoro nei campi di mais e di barbabietole di West Baden, nello stato dell’Indiana, si fumava il sigaro in veranda dondolandosi sulle ginocchia quel ricciolino biondo che si metteva sempre le dita nel naso e non rideva mai. Per forza, il piccolo Larry odiava il fumo pestifero di quel sigaro puzzolente e più ancora l’odore della minestra di cavoli che arrivava dalla cucina. Insomma avrebbe solo voluto tapparsi il naso. In verità, spedendo subito Buffa a quel paese, specie quando parla di calcio su Sky e lo pagano pure, il meraviglioso numero 33 dei Celtics non avrebbe mai potuto ridersela sotto i baff(ett)i visto che la vita lo aveva presto pesantemente segnato con il suicidio del padre che era tornato dalla guerra in Corea che non era più lo stesso. E così Bird, a diciott’anni, si trovò senza lavoro e povero in canna, solo con quel canestro attaccato ad un albero che sarebbe stato la sua fortuna. E la mia che nel ’90, a Madrid, mi feci fotografare sul parquet mentre gli stringevo fiero la mano. E lui era finalmente sorridente.

L’Europa che batte gli Usa in Reyder Cup e il Barcellona che mette in riga i Los Angeles Lakers: nessuno può essere più felice di me anche se capisco, mica sono scemo, che non capita tutti i giorni d’incontrare un Tiger Woods con mille altre cose per la testa e un Kobe Bryant che spara peggio di Gallinari e Bargnani messi insieme, cioè con un complessivo 2 su 15 al tiro. Ora manca soltanto che la Juve venda Buffon e compri Pazzini, o che i Knicks caccino D’Antoni dalla Grande Mela e il Real Madrid faccia lo stesso con l’odioso Mourinho, e poi potrei anche serenamente andare incontro alla vecchiaia raccontando le mie storie vere. Come quella volta in cui mi trovai a Stoccarda nudo come un verme che facevo la sauna con un giornalista che consideravo un verme e che pure adesso continua ancora a strisciarmi intorno, ma che mi dicono se la passi anche molto male e allora farò quello che ho fatto cinque lustri fa: corro di nuovo a tuffarmi nella piscina d’acqua gelida e lo lascio perdere. Vi dirò piuttosto che ho avuto il coraggio di seguire in tivù l’apertura della Legadue tra Veroli e l’Umana e d’essermene pentito amaramente. Perché a parte Clark che giocava per conto suo e segnava da tutti i cantoni, il resto è stato uno spettacolo penoso. Con gente che non sa tirare neanche i liberi e quattro gatti sugli spalti per una partita che, a sentire Laurito e Michelini, avrebbe dovuto essere anche di cartello. Dio mio, come siamo caduti in basso. Mentre sono sul serio contento che Matteo Mantica sia in fretta rientrato nel giro del basket che cerca sponsor e consensi. Sperando che l’ex capo ufficio-stampa dell’Armani Jeas non sia stato di nuovo raccomandato dalla Banda Osiris. Nel qual caso subito lo bollerei. Definitivamente e democraticamente: è ovvio. A meno che non mi spieghi cosa vuole dire questo titolo a tutta pagina che ho letto sull’ultimo SuperBasket: “Lo spacchettamento dei diritti passa anche dalla blindatura della serie A”. Mi cadono le braccia e non mi va proprio d’aggiungere altro.