alt
 

Il coach della Spagna su tutto: il Khimki, gli Europei, l'Italia («Chi ha tre giocatori NBA da quintetto?»), Milano, Peterson, l'Eurolega di Siena, il passato e il futuro. «L'Italia più vicina? Non l'ho mai considerata lontana»

 

Ci sono tanti modi e tanti posti per ricaricare le pile.

I venti gradi di Marbella sono uno dei migliori. Sergio Scariolo presto tornerà in trincea perché qualunque deviazione gli riservi il futuro, persino l'eventuale sosta ai box, non gli impedirà di scendere nella plaza de toros degli Europei in Lituania dove la sua Spagna arriverà con una medaglia d'oro da difendere, un Mondiale da vendicare e il mirino dritto sull'obiettivo vero, i Giochi di Londra 2012. Così l'allenatore italiano che sta a Ettore Messina come Bartali a Coppi, solo una rivalità meno spigolosa, basata invece sul rispetto, oggi è ai confini dell'impero. Ma si sta già scaldando. Finita la storia con il Khimki, una storia che professionalmente forse non avrebbe nemmeno dovuto cominciare perché rappresentava una grande utopia, quella di rovesciare il potere russo del CSKA, si è rifugiato a Marbella senza farsi il sangue amaro se la scelta più facile per il futuro dell'Armani Jeans non l'ha minimamente investito («non poteva toccarmi», spiega). Anzi Scariolo guarda con simpatia al grande futuro che Dan Peterson ha dietro le spalle. Pensando alla sua storia, forse viene voglia di chiedersi come si sentano i tifosi di Pesaro che contestarono una squadra che perse la semifinale delle Final Four del 1991 o come sarebbe stata la storia sua e della Fortitudo se Giorgio Seragnoli avesse capito, allora, di aver trovato nel tecnico bresciano il suo Messina e non un capitano di ventura. Magari sarebbe stata, quella di Scariolo, una carriera diversa ma anche meno avventurosa. Perché se la Fortitudo non l'avesse esonerato non ci sarebbe stata Vitoria e senza Vitoria neanche il Real Madrid, Malaga e forse la Nazionale spagnola. O forse sì, perché lo spirito di Scariolo è sempre stato quello del rivoluzionario in giacca e cravatta: se Messina ha costruito la sua carriera portando al massimo livello possibile squadre e realtà che erano state forti anche prima di lui (non così forti magari), Scariolo fin dal principio ha recitato una parte diversa in questo grande film che è stato il basket degli ultimi venti anni. La parte del ribelle, quello che cerca di rovesciare le dittature. Fu così in Fortitudo, lo è stato a Vitoria, a Malaga e al Khimki. Non lo è stato a Madrid, dove ha vinto, ma forse è proprio lì che l'hanno capito di meno.

Scariolo, cos'è successo al Khimki?

«Molto semplicemente ero andato a Mosca per costruire un progetto di crescita che stabilizzasse la squadra ai vertici europei. Queste ambizioni si sono scontrate in fretta con una realtà economica sfavorevole. Il disegno iniziale era molto intrigante ma ho capito subito che programmare sarebbe stato molto difficile. Purtroppo la realtà russa è che le proprietà ci sono oggi e non sai bene se ci saranno domani, quindi vivi in un clima di perenne incertezza. La conseguenza è che ogni anno eravamo costretti a ripartire daccapo dopo aver perso giocatori chiave, lo zoccolo duro che avrebbe dovuto portarci vicini alla galassia CSKA e di conseguenza all'elite europea. Ad esempio quest'anno abbiamo perso giocatori vitali come Garbajosa, McCarty, Mozgov che è andato ai Knicks. Quanto alla squadra abbiamo perso tante partite di due-tre-quattro punti. Se succede spesso è la spia di qualcosa che a livello caratteriale ci mancava. Però sia in Russia che nella Lega Baltica eravamo ai vertici, nonostante tanti infortuni, la preparazione sballata a causa dei preliminari di Eurolega e infine i sei reduci dai Mondiali. Però la verità è soprattutto che la mia presenza, il mio contratto, erano diventati sproporzionati rispetto alle dimensioni ristrette del progetto. Che ovviamente non era più quello iniziale».

Questa storia insegna a diffidare dei progetti russi a meno che come è successo a Ettore Messina non si vada direttamente al top, al CSKA?

«Il CSKA è una realtà molto particolare. Per anni ha avuto budget enormi, nettamente superiori anche al valore dei giocatori presi, per convincerli ad andare in Russia. Poi li ha affidati ai migliori allenatori, perché prima di Messina c'era Ivkovic, infine gode di un peso anche politico costruito in anni e anni che si sente in Europa e ancora di più in Russia. Quella è una situazione che ha radici estremamente profonde. Ma la mia storia è diversa, sono sempre stato un allenatore che le sue sfide le ha portate venendo dal basso, cercando di rovesciare i regimi. Penso alla Fortitudo, poi a Vitoria, Malaga e appunto il Khimki. Non sono pentito perché era una sfida estrema ma molto stimolante. Non l'abbiamo persa, perché i fatti dicono che due volte siamo arrivati in finale, ma per rovesciare il regime ci voleva altro. Il CSKA ha tanti giocatori di livello altissimo che giocano insieme da anni. Per costruire qualcosa di simile devi avere la forza organizzativa ed economica per proteggere i tuoi migliori elementi. E' lì che siamo mancati».

Adesso si rituffa nell'avventura delle furie rosse?

«A livello contrattuale avrei la possibilità di far scattare il full-time, non l'ho fatto perché vorrei vedere cosa succede sul mercato a inizio estate. Lo stimolo del lavoro quotidiano mi attira ancora e non vorrei perderlo se fosse possibile. Però ho dato alla Federazione ampia disponibilità per lavorare come se fossi il commissario tecnico a tempo pieno, a tutti i livelli».

Ma cos'è successo ai Mondiali?

«Siamo andati fuori per un tiro da nove metri. Questa è la realtà. Ma eravamo senza Pau Gasol e Josè Calderon: siamo certamente una squadra molto forte ma non di un altro pianeta. Se ci vengono a mancare due giocatori chiave e per di più "quei" due giocatori, diventiamo molto più umani e quindi è necessario fare fatica, soffrire per strappare un risultato di rilievo. Di sicuro la tenuta difensiva non è stata quella degli Europei vinti o sufficiente per un risultato importante. Ora sappiamo chi siamo: forti, fortissimi al completo, competitivi ma non superiori in caso di assenze importanti. Uno come Pau non lo sostituisci, per intenderci».

Non fosse stato impegnato con la Spagna sarebbe stato pronto ad allenare l'Italia o la scelta di guidare una Nazionale era vincolata alla qualità del gruppo?

«Ho accettato di allenare la Spagna perché ho capito di avere la possibilità di guidare la squadra più forte che mi potesse mai capitare di allenare ad ogni livello. Era una sfida puramente tecnica: allenare un gruppo fortissimo, provare a vincere gli Europei, andare alle Olimpiadi e cercare di prendere una medaglia. Siamo in corsa. Sono un pragmatico, non ragiono per ipotesi. In quel momento è arrivata la Spagna, non l'Italia. Posso dire però che certe considerazioni credo valgano anche per Simone Pianigiani: non vedo in giro tante squadre che possano mettere in campo tre giocatori da quintetto nella NBA. L'Italia ha un gruppo di grande qualità».

Arrivato alla soglia dei 50 anni, ha fatto tantissimo in carriera ma è ancora giovane. Cosa chiede al futuro?

«Non sono così presuntuoso da pensare di potermi scegliere le prossime battaglie. Saranno altri a sceglierle per me. Sul piano delle motivazioni, allenare la Spagna rappresenta già uno stimolo fortissimo perché in fondo al percorso vedo una medaglia olimpica. L'unico problema è che la Nazionale ti assorbe per due mesi e allenare un club invece ti offre la possibilità di misurarti quotidianamente con il tuo lavoro. Ma non ho la necessità né agonistica né economica di allenare, quindi non sono costretto ad accettare qualunque cosa. Poi sono uno che ha sempre guardato al lato positivo delle situazioni: oggi penso alla Spagna, mi godo la famiglia, ho una vita piena e non voglio entrare nella logica di chi aspetta con impazienza una nuova squadra. Potrei logorarmi chiedendomi come mai non abbia mai allenato una squadra in grado di vincere l'Eurolega, invece preferisco rallegrarmi di allenare la Spagna e di aver fatto tante cose importanti».

Un ritorno in Italia è più vicino che in passato?

«Non l'ho mai considerato lontano. Quando sentivo Messina dire di non voler tornare in Italia, non mi riconoscevo in quelle dichiarazioni. Io sono sempre stato pronto a tornare. Mettiamola così: non avendo contratti in corso, sono ad una chiamata dal ritorno. Fino a poche settimane fa non era così. In questo senso, sì, sono più vicino».

Quando andò in spagna, a Vitoria, pensava ad un trasferimento momentaneo?

«Feci una scelta di pallacanestro, non di vita. Avevo capito che la lega spagnola stava prendendo il sopravvento sulla nostra e mi sembrava importante farne parte ad un buon livello. Avevo studiato la lingua, ero preparato. Quando sono andato in Russia avevo le stesse sensazioni, ma la situazione è più complessa. Credo che la prossima scelta sarà un progetto specifico».

Allena ai vertici da oltre vent'anni. Eppure il basket è cambiato: anche il mestiere di allenatore?

«E' un po' come i figli. Se li vedi tutti i giorni non ti accorgi di quanto cambino o crescano. Come allenatore sono cambiato con il tempo semplicemente perché non ho mai perso la voglia di migliorarmi e adattarmi. La tecnologia oggi ti consente di avere un controllo sul gioco totale ma alla fine guidi sempre uomini o ragazzi e i ventenni di venti anni fa non erano come quelli di oggi. Questo ti obbliga a cambiare anche il modo di comunicare».

Messina dice che più di sempre è importante costruire bene la squadra d'estate. Se ci riesci poi va con il pilota automatico.

«Sono d'accordo nel senso che i margini di correzione sono ridotti, invece è fondamentale sintonizzare la squadra, la società, i tifosi, i media tutti sulla stessa lunghezza d'onda. Se ci riesci tutto diventa più facile. Ma al tempo stesso sono ancora convinto che il lavoro quotidiano sia vitale: coltivo sempre l'obiettivo di avere una squadra che a gennaio sia più forte di quanto lo fosse a ottobre e ad aprile migliore che a gennaio».

Riguardando al passato: Scariolo avrebbe dovuto essere il Messina della Fortitudo?

«Arrivai che eravamo neopromossi ma con sei punti di penalizzazione. Siamo arrivati in breve alla finale scudetto. La Fortitudo era uno stato nascente. Ma la crescita di una squadra non è mai una linea obliqua costante. L'ultimo balzo è sempre il più complicato, è quello che ti permette di passare dallo status di contendente a quello di vincente. Poi c'è la conferma delle vittorie che è un altro problema ancora. Lì non ci fu la pazienza di aspettare che completassimo la crescita. Peccato».

E' uscito da un'Eurolega che Siena potrebbe anche vincere?

«Più di altre volte: se penso al livello generale delle squadre migliori, alla costanza del Montepaschi, non vedo squadre imbattibili per Pianigiani. Solo il Barcellona potrebbe esserlo se, una volta recuperati Pete Mickael e Gianluca Basile, dovesse ritrovare anche la chimica dell'anno scorso, il che è possibile ma non automatico. Siena mi piace: secondo me è un tantino meno esplosiva, brillante del passato ma molto più dura, solida. E' evidente che Siena sfrutta la grande organizzazione societaria, quella sintonia di cui parlavo prima e la qualità del lavoro di Pianigiani e del suo staff. Poi vincere l'Eurolega è una questione che dipende dalle condizioni di forma e salute che hai in un weekend particolare. Serve tanta fortuna».

La nomina di Dan Peterson a Milano è un po' uno schiaffo alla nuova generazione di allenatori? teoricamente potevano chiamare anche lei.

«No, non lo è, perché stiamo parlando di Dan Peterson e di quello che rappresenta per l'Olimpia Milano e la sua storia. La trovo una mossa con una sua logica, perché ha compattato ambiente, stampa, società, squadra, è una mossa che è piaciuta a tutti. Vista dall'esterno la trovo più molto più affascinante, per tutti, che rischiosa. Però devo anche dire che, da collega, nessuno più di me può capire l'amarezza di Piero Bucchi. Non è solo solidarietà professionale, credo che nel momento storico in cui è arrivato a Milano abbia fatto quanto poteva, raggiungendo due finali scudetto. Credo sia giusto riconoscerglielo. Io? Ho appena chiuso con il Khimki, in ogni caso non avrei mai voluto rientrare troppo presto. Oggi penso alla Spagna, lo sanno anche i miei agenti Dario Santrolli e Giampiero Hruby».