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Intervista con il nuovo coach della Benetton, società che ha stupito tutti richiamando in panchina l’ex superstar di Partizan, Milano, Fortitudo, Barcellona e Real(oltre a una breve esperienza a Portland nella NBA), che solo a Milano – finora – aveva messo i panni del coach.

 

Un’esperienza complessa nella società allora gestita da Giorgio Corbelli e Gino Natali, poi quattro anni di sipario. Adesso è pronto a riprendersi il campo da grande protagonista. E chiarisce, a beneficio degli scettici: “Alleno io, sul campo, ogni giorno. Altro che gestore…”.

 



Sasha, partiamo proprio dalla scelta di tornare ad allenare. Ci si aspettava un suo rientro, ma piuttosto come dirigente. Da dove nasce la sua decisione?



“Semplicemente dalla proposta che mi ha fatto la Benetton, una di quelle che non passano due volte nella vita. Treviso è una piazza storica italiana ed europea, ma direi anche di rilevanza mondiale per tutto ciò che rappresenta. Per me è sempre stata una grande avversaria, come ho già avuto modo di dire su questa panchina si sono seduti Messina, D’Antoni e soprattutto Obradovic: per me grandissimi uomini di basket, se non proprio il basket”.



Cos’è che ha reso così facile la sua scelta?



“L’offerta da è arrivata da Claudio Coldebella, che mi conosce molto bene, perché prima è stato un mio avversario, poi a Milano l’ho avuto come compagno di squadra, giocatore e vice allenatore. Quindi conosce tutti i lati della mia personalità, e capisce perfettamente il basket. Inoltre ho parlato anche con Enzo Lefebre, che è una persona a me molto cara, che rispetto molto e che ha dato tanto al basket. La loro proposta è stata molto diretta, senza troppi numeri. Mi piace avere una sfida davanti, e anche se dopo una carriera come la mia il basket offre tante possibilità per lavorare, io mi sono sempre sentito e mi sento un allenatore. A Milano avevo perso la passione e l’entusiasmo, a causa di certi comportamenti anche pubblici della società nei miei confronti. Ma io senza basket non so stare: in palestra mi si illuminano gli occhi”.



A Milano è stato prima da giocatore, e poi ha lavorato in panchina: cos’è cambiato nei suoi rapporti con la società, con questo cambio di ruolo?



“Da giocatore parli soprattutto con l’allenatore, e io con l’Armani Jeans ho giocato solo pochi mesi, nei quali siamo riusciti ad arrivare in finale, una delle più affascinanti degli ultimi anni [quella decisa all’instant replay sul tiro di Douglas, ndr]. Quando sono tornato da allenatore, invece, ci sono stati vari episodi che non mi andavano bene, e purtroppo non sono riuscito a cambiare la mentalità di quelle persone. Io a Milano ho lavorato con grande lealtà, e so di aver fatto benissimo: lo dico senza presunzione, né arroganza. Lo dico perché so com’era la squadra e com’è stata costruita. Dopo un secondo posto in regular season perdemmo in semifinale contro la Virtus che non si accoppiava assolutamente bene con noi. Loro sfruttavano tantissimo il pick and roll, noi avevamo due lunghi come Blair e Watson che proprio nella difesa sul pick and roll avevano il loro punto debole. Ma dopo quella serie hanno deciso di cambiare allenatore, perché chi faceva le scelte non aveva le qualità necessarie per poter valutare il mio lavoro e quell’annata. Tanto è vero che presero l’allenatore che mi ha sconfitto nei playoff [Zare Markovski, ndr], ma a causa degli stessi problemi che ho avuto io è durato solo tre mesi. Infine va detta una cosa, molto chiaramente”.



Quale?



“Io sono stato messo lì come allenatore per tappare i fischi piovuti sulla dirigenza nelle settimane precedenti, perché la gente si aspettava di più dopo il raggiungimento della finale nella stagione precedente. Ero cosciente di questo, ma ho dato comunque tutto per la mia squadra e la mia società. Questo fatto però non è stato riconosciuto, anzi: e a me non piacciono le situazioni in cui si cerca il capro espiatorio”.



Avessi continuato a Milano, avrebbe messo su una squadra molto giovane, con Gallinari e Aradori in quintetto [lui arrivò comunque, da Imola, ma venne ceduto nel corso della stagione, ndr]. A Treviso l’avrà: è questo, quindi, il suo modo di concepire le squadre?



“I giovani sono il futuro, e il futuro ti dà l’ambizione e anche una certa allegria. Nessun giocatore esperto o grande nome può portarti l’entusiasmo dei giovani. Le squadre che possono vincere hanno il giusto mix di gioventù ed esperienza, e qui a Treviso c’è una grande base di giovani, con tanti nazionali under, che con me avranno ogni giorno le loro possibilità. Per me un giovane è un giocatore a pieno titolo, conta solo ciò che produce in campo: il basket italiano ha bisogno di dare opportunità ai ragazzi, ciò che manca oggi è una squadra come la Milano che aveva Max Aldi, Pittis, Pessina, Ambrassa. Giocavano contro di me in nazionale juniores, me li ricordo benissimo. Dalle mie parti è normale dare ai più giovani la possibilità di giocare, ancora oggi in Serbia si punta molto sui ragazzi, trovando soddisfazioni e risultati. E poi, considerato anche il momento economico non solo del basket italiano, è una scelta anche molto logica”.



Un grande maestro come Bozidar Maljkovic una volta disse: “A 22 anni un giocatore non è più giovane, semmai è un giocatore senza esperienza”. Condivide?



“Totalmente. Io sono dell’idea che l’esperienza arrivi giocando e non guardando dalla panchina. Bisogna avere pazienza e prendersi la responsabilità di farli giocare, i giovani. Uno come me può seguire i passi dei grandi allenatori che hanno questa mentalità, proteggendo i ragazzi dall’ambiente esterno alla società ma nello stesso tempo dandogli responsabilità e opportunità, e lavorando ogni giorno su di loro, correggendoli, stimolandoli, facendo tutto ciò che è necessario per farli crescere. In Italia, a 20 anni, i giocatori si trovano nella condizione di dover scegliere di andare nelle serie minori per giocare, ma se pensiamo che a 16 anni un ragazzo abbia potenziale da Serie A, perché non ci gioca a 19 anni?”.



La Benetton l’ha vista in Eurocup, dal vivo anche alle Final Four: cosa mancò a quella squadra per fare l’ultimo passo per vincere? E quali cambiamenti bisogna fare, secondo lei?



“Non c’era molto da cambiare, visto che si trattava di una bella squadra, fatta bene, allenata bene con un grande lavoro di Repesa. Treviso aveva trovato un’ ottima chimica, finendo molto bene la stagione regolare e giocando una Eurocup eccellente, purtroppo non riuscì a fare l’ultimo passo per vincerla ma era una grandissima squadra, lo ripeto. Oggi, pensando ai cambiamenti, l’aspetto economico è molto condizionante”.



È sempre stato abituato a parlare di vincere: approcciare questo campionato con Siena e Milano, quindi non da favorito, è uno stimolo particolare?



“Rispondo con una domanda: la forza di Siena e Milano mi impedirà di preparare una partita contro di loro per vincere? No. Nessuno si deve nascondere dietro alla grandezza di un avversario. Quello che voglio trasmettere è proprio un altissimo livello di competitività: in ogni allenamento e in ogni partita. Ogni avversario che si vuole più forte di noi dovrà dimostrare di esserci superiore sul campo, non prima. Conta solo il parquet”.



Siete l’unica italiana in Eurocup, in totale ci sono solo quattro italiane in Europa: che impressione le fa il basket italiano di oggi?



“Secondo me il livello è abbastanza alto, in questo momento. Se ci pensiamo, tre squadre in Eurolega non sono poche: Siena e Milano si presentano fortissime, Cantù farà bene grazie al grande lavoro di Arrigoni e Trinchieri. Direi che l’Italia in questo momento ha le rappresentanti giuste, certo sarebbe meglio avere sei squadre nelle coppe. Ora dovremmo sfruttare questo momento per preparare il futuro, e magari tornare davanti a tutti, al posto della Spagna. Oggi bisogna guardare la ACB per organizzazione, sponsorship, competitività anche in Europa. Pensiamo a Vitoria che pianifica tantissimo, a Barcellona e Real che sono sempre lì, che ci sono realtà come Malaga pronte a sorprendere, all’Estudiantes con la sua solida tradizione in Eurocup, a Bilbao che è una realtà. Ci sono tanti club che danno l’esempio”.



Nei suoi primi mesi da allenatore a Milano aveva chiamato con sé Milan Minic, che poi non fu confermato per scelta della società. A Treviso chiamerà qualcuno di sua fiducia?



“Ci siamo già mossi, aspettiamo la risposta. Si tratta di un grande professore del basket, italiano, che spero accetterà di lavorare con me e con questa società. Abbiamo tutti una grandissima voglia di averlo, ma non dico il suo nome per rispetto, perché non ha ancora preso la sua decisione. Posso solo dire che sarebbe un onore per me avere questa persona come vice, anzi come il capo”.



Concetto interessante: ma Sasha Djordjevic è un allenatore di campo o un “gestore”?



“Chi pensa che io non alleni sul serio non ha capito niente. Vuol dire che non conosce la realtà. Chiedete a Claudio Coldebella, che ha lavorato con me. Alleno con grande passione e voglia e ho un concetto molto chiaro di cosa deve essere uno staff tecnico: io non voglio accanto a me persone che mi chiedano sempre cosa fare, che eseguono e basta. Ogni componente del mio staff deve pensare alla squadra tanto quanto me, e deve venire ogni giorno prima dell’allenamento con una proposta. Per me questo è uno staff, in cui c’è un forte scambio di idee e opinioni. Con questa base si può costruire qualcosa di buono”.



A proposito di Coldebella: così come lui la conosce perfettamente, è vero anche il contrario. Cosa può dire del Coldebella dirigente?



“Io di carattere sono uno molto esplosivo, diretto, come un libro aperto, lui è l’opposto. È quello che ci vuole per un dirigente del suo livello, che secondo me ha tutto per essere il migliore nel suo campo. Claudio è molto pacato, molto ragionatore, sempre con i piedi per terra. Trasmette sicurezza e idee chiare, e ha anche le maniere giuste per completarsi con il mio carattere molto passionale. Sulla carta, siamo una coppia assortita molto bene. Abbiamo un rapporto eccezionale, siamo sempre chiari e diretti, non ci nascondiamo niente. La chiarezza è importante, e la rispetterò molto”.



Ci sono due giocatori importanti, per il Djordjevic allenatore: Gallinari, che con lei ha mosso i primi passi in Serie A e ora è un affermato giocatore NBA, e Bulleri, che ha sempre parlato molto bene di lei come coach.



“Fa piacere che delle belle parole per il mio lavoro di allenatore arrivino da un giocatore del genere, ed è anche una risposta molto chiara a quelle chiacchiere sul mio modo di lavorare. Bulleri è il mio capitano, e lo sarà se trovasse l’accordo giusto con la società per continuare questo suo rapporto con Treviso. Secondo me il Bulleri di Treviso è un giocatore, altrove un altro. Si tratta di un grande professionista, una persona serissima, un giocatore che a me piace tantissimo, ma il Bulleri vero è sempre e solo quello di Treviso, perché ci si trova da dio. A Milano è stato messo in difficoltà da subito, con delle dichiarazioni [quelle dell’allora presidente Corbelli prima di una partita contro la Fortitudo, ndr] che di fatto lo misero contro il suo allenatore [Lino Lardo, ndr]. In quel momento è stato affossato il Bulleri di Milano, dove non si è mai sentito protetto se non con me, e infatti ha fatto una stagione e mezza eccellente. Il Gallo? Ha preso al volo tutte le occasioni che ha avuto, e non sa nemmeno lui quanti problemi ho affrontato a Milano per potergli dare fiducia e quintetto. Tanti veterani sono venuti da me lamentandosi, specie dopo le sconfitte, per il tanto spazio che aveva Danilo: non capivano, però, che sostituendo Gallinari con un altro giocatore, anche nelle sere in cui giocava male, saremmo arrivati agli stessi risultati. Questo vuol dire proteggere un giocatore e il progetto della società. Ho sempre difeso questa scelta e sono stato ripagato da lui anche dopo: penso che Danilo sia un esempio per tutti, per la maturità che aveva già a 18 anni, la serietà, il lavoro e l’umiltà”.



Parliamo ora di tre giocatori che allenerà in questa stagione: Mekel. Gentile e Motiejunas.



“Mekel è il primo giocatore che avevamo nella nostra lista. MVP del campionato israeliano, ha molta fiducia in sé stesso, è un grande professionista, lavora d’estate con un suo allenatore per migliorare i suoi difetti, gli piace molto sentire il peso della squadra e non ha paura di niente. Gli daremo la possibilità di esprimersi ai massimi livelli, siamo contenti di aver fatto una trattativa veloce per portarlo a Treviso. Motiejunas mi piacerebbe allenarlo per tutta la stagione, vedremo come andrà a finire il lockout NBA. Sicuramente è uno dei migliori giocatori in Europa nel suo ruolo, può diventare davvero importantissimo per la nostra squadra, ma non dipende solo da noi. Gentile non va più considerato un giovane. Ormai è a tutti gli effetti un giocatore della Benetton, se non ‘il’ giocatore della Benetton. Gli darò lo spazio che si meriterà, ora ha delle responsabilità diverse ma ha il miglior esempio possibile in casa sua. Suo padre Nando, da giovanissimo, portò Caserta allo scudetto. Chissà che Alessandro non possa fare lo stesso a Treviso. La società ha lavorato benissimo, è cresciuto sia fisicamente che tecnicamente, qui. Ora tocca a lui”.



Per finire: in questi quattro anni da osservatore esterno, cosa le è piaciuto del basket italiano? E cosa invece non le è piaciuto?



“Certamente Siena mi ha impressionato, ma gli altri dovevano fare di più per vincere contro un’avversaria di questo genere. Ci sono sempre state delle grandissime squadre, ogni epoca ha avuto la sua, ma si è sempre trovato il modo di batterle. Siena ha costruito la sua supremazia con tantissimi meriti, ma i suoi avversari non hanno fatto abbastanza. Inoltre avrei voluto vedere tanti più giovani italiani nelle squadre di Serie A, un nuovo playmaker di altissimo livello, ruolo in cui mancate di più come nazionale. Oggi questo ruolo è coperto molto spesso da giocatori stranieri, ma i giovani playmaker se non giocano non imparano niente: va bene proteggerli con un veterano, ma bisogna anche lasciar loro il giusto spazio. Faccio i complimenti a Cinciarini e Cavaliero per come hanno saputo emergere, è un peccato che Hackett non sia andato bene a Treviso, magari anche per colpe sue, perdendosi l’occasione di far parte da subito della Nazionale della sua generazione, con Belinelli, Bargnani, Gallinari e Aradori. A Pesaro si sta togliendo alcune soddisfazioni, magari qui avrei lavorato di più su di lui, ma spero che possa crescere ulteriormente”.